In un post di qualche mese fa abbiamo commentato i risultati “luci e ombre” della COP15 sulla biodiversità, tra i quali l’obiettivo di arrivare alla protezione del 30% di tutte le aree terrestri e marine (oggi siamo a circa il 17% di quelle terrestri e al 10% di quelle marine).

Pare che un grande passo avanti sia stato mosso negli scorsi giorni: un accordo globale sulla protezione delle aree marine, in particolare di quelle in “mare aperto“, dove tutti i Paesi hanno diritto a pescare, navigare e fare ricerche. Una “terra di tutti e di nessuno”, anzi, un “mare di tutti e di nessuno” governato da una legislazione ferma al 1982.

L’accordo parla, come stabilito dalla COP15, del 30% delle aree in mare aperto che dovrebbero diventare protette entro il 2030. In pratica, esso mira a imporre regole molto più stringenti delle attuali sulla pesca, sulle rotte di navigazione e sulle attività di esplorazione che vi si possono svolgere, come l’estrazione dei minerali dai fondali oceanici.

La BBC ha definito questo accordo come “storico“, perché arriva dopo dieci anni di negoziati ma anche perché ha sostanzialmente visto la convergenza politica di colossi quali Stati Uniti, Cina,

Regno Unito e Unione Europea, riconoscendo diritti, oltre che doveri, anche ai Paesi più poveri.

Se da un lato siamo ovviamente felici di questo risultato epocale, dall’altro speriamo che non ci mettano altri dieci anni per mettere in pratica l’accordo, che prevede tra l’altro una nuova COP dedicata nello specifico a questo tema.

Rispetto all’enorme problema globale della perdita di biodiversità qualcosa si muove, ed è un gran bene, ma la lentezza di queste decisioni internazionali e della loro “messa a terra”, come avviene anche in ambito climatico, è talvolta esasperante. Nel frattempo il degrado degli ecosistemi, degli oceani in questo caso, prosegue senza sosta.

Abbiamo davvero tutto questo tempo?

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