È una frase che non esce dalla testa. È scritta sui muri dei portici di via Zamboni a Bologna, è stata riutilizzata degli universitari in protesta per il diritto alla casa.

È una frase archetipica nella sua semplicità. Racconta il bisogno comune a tutti gli essere umani, da sempre, di tendere a un miglioramento della propria condizione, alla felicità. Idea che nel tempo è stata declinata in molti modi – età dell’oro, progresso, persino consumo – ma che rimane il cuore del nostro stare al mondo come esseri non solo pensanti, ma immaginanti.

Motivo per cui i lavoratori, per decenni, hanno chiesto non solo di poter lavorare, ma di poter lavorare e vivere bene; motivo per cui gli studenti, oggi, stanno chiedendo non solo di poter studiare, ma di poter studiare e vivere bene.

Chi protesta – per il clima, la parità, i salari – lo fa per un’idea di mondo in cui bellezza, benessere, giustizia coincidano; in cui non ci debba più essere spazio per tutte quelle cose che rendono la nostra vita brutta, piena di malessere e iniqua, che siano i combustibili fossili, i privilegi o le disuguaglianze mascherate da status quo. E non è generazionale e non è da scansafatiche. È da persone che non hanno tradito la propria natura di esseri desideranti e, in quanto tali, umani.

Sembra scontato, ma viviamo in una strana tempolinea, in cui tante cose considerate naturalmente rivendicabili non lo sono più.

Ridare forza e chiarezza al tema di una vita bella, per tutti, deve tornare al centro di qualsiasi lotta, politica e sociale. Solo così avremo una qualche possibilità di coinvolgere anche quelli che continuano a guardarci stando ai margini.