Transizione linguistica

Da circa un anno e mezzo gestisco uno spazio online chiamato Alto-Rilievo

/ voci di montagna, dove, tra i vari argomenti proposti, provo a raccontare le difficoltà sociali che abbiamo nell’affrontare i cambiamenti climatici.

Quando si parla di transizione ecologica, infatti, ci si riferisce nella maggior parte dei casi a una transizione tecnologica e molto più raramente a una transizione sociale e di conseguenza culturale.

Premesso che lo sviluppo delle tecnologie è di imprescindibile importanza per affrontare i cambiamenti climatici, non è semplice sognare una società più sensibile se non si riescono a modificare le strutture del pensiero su cui quella società oggi si sorregge; non è semplice pensare a una società più sostenibile se non si riesce a passare da società dell’addizione, concentrata sulla crescita, a società della sottrazione, caratterizzata dalla capacità di sintesi, dall’abilità di eliminare quegli orpelli di cui amiamo circondarci, ma che alla fine non fanno che creare confusione e inutili sprechi. Essere felici con poco, con il necessario e non con il superfluo: sembra una banalità, ma è forse proprio questa la chiave.

Quindi, sarà complicato ottenere dei risultati davvero impattanti finché gli approdi tecnologici non saranno seguiti da approdi culturali. Perché è inutile, per fare un esempio sciocco, avere l’auto elettrica se poi la si cambia ogni anno; oppure se la si utilizza per ogni minimo spostamento. Infatti anche l’energia elettrica, come tutti già saprete, può richiedere elevati costi in termini ecologici: ad esempio, lo sfruttamento del Piave ha causato, negli ultimi 40 anni, la riduzione di circa 1/3 della portata nel tratto finale del fiume e ha prosciugato circa il 90% dei torrenti d’alta montagna compresi nel suo bacino idrografico (Franzin, 2006). Così la Piave corre

perennemente il rischio di essere dichiarato un fiume biologicamente morto.

Lavorare sulla cultura (naturalmente “cultura” intesa in senso stretto, antropologico), è tuttavia molto complesso, perché la cultura è materia viva e quindi imprevedibile. La cultura non si presta al metodo scientifico, sfugge ai calcoli matematici. La cultura, a differenza di quanto strillano i partiti a trazione sovranista, non si ripete inalterata nel tempo e non è nemmeno omogenea. Al contrario è un’entità caleidoscopica, colorata, permeabile, che tende a mutare nel tempo. All’interno di una società si diramano numerose nicchie identitarie. Ad esempio noi, qui riuniti perché accomunati da una sensibilità condivisa, possiamo considerarci una tra le infinite nicchie culturali che caratterizzano la nostra società.

È un mondo plurale, ed è proprio attorno a questa consapevolezza che bisognerebbe sviluppare strategie divulgative efficaci, capaci di coinvolgere un numero ampio di indirizzi culturali. Invece, osservando il linguaggio adottato dalla maggior parte degli organi accademici, sembra quasi che il desiderio di affermarsi dal punto di vista soggettivo, superi quello che dovrebbe essere il compito principale delle accademie: distribuire conoscenza.

Allora troviamo centinaia di monografie interessantissime, arricchite di dati sorprendenti, di ragionamenti brillanti, ma assolutamente illeggibili; con periodi infiniti conditi da labirinti sintattici dove è molto semplice perdersi. Il risultato è che questi studi vengono letti solo da chi è già interessato all’argomento, ma non riescono a coinvolgere le persone meno attente e nemmeno a creare una breccia nel muro innalzato da chi è scettico per natura e da chi è cinico per interessi.

Per stimolare una maggiore sensibilità ambientale è quindi necessario tradurre i dati scientifici in un linguaggio più semplice, capace di coinvolgere emotivamente il lettore. Per richiamare una formula vincente, bisogna partire da esempi locali, visibili se non addirittura tangibili, per raccontare dinamiche globali. Bisogna attingere dal quotidiano, dalla grandine che ha distrutto l’orto del contadino, dalla tromba d’aria che ha spazzato via sdrai e ombrelloni, dall’assenza di sabbia in alcune spiagge causata dall’eccessiva regimentazione dei corsi fluviali, dal ragazzo travolto dal crollo di un seracco caduto a causa di una giornata particolarmente torrida. Esempi capaci di creare un legame empatico tra scrittore e lettore.

In questo, come sostiene tra gli altri lo scrittore e antropologo indiano Amitav Ghosh, la letteratura può aiutare l’universo scientifico giocando un ruolo molto importante, ossia «smascherando le profonde ragioni culturali che stanno alla base dei cambiamenti climatici e promuovendo quel coinvolgimento emotivo che può indurre nel cuore e nella mente dei lettori quei mutamenti culturali finalizzati a determinare nuovi comportamenti», quei mutamenti culturali necessari per vivere in modo compatibile con le possibilità offerte dall’ambiente.

Per concludere, penso sia quindi indispensabile, oltre a una transizione tecnologica e a una transizione culturale, anche una transizione linguistica. Per dirla con altre parole, continuando a produrre una conoscenza fine a se stessa, incapace di sollecitare un’adeguata spinta emotiva, la trasformazione, per forza di cose, sarà debole e insufficiente.

17/07/2021, Pietro Lacasella